La nuova cortina di ferro

Di Elisabetta Frezza
Intervento nell’incontro di Ficulle 2023, con Giorgio Bianchi.

Quello di Ficulle, nei pressi di Terni, è un evento organizzato annualmente da Giorgio Bianchi, con la particolarità d’essere più simile a un flash mob che a un festival.
La sede rimane più o meno la stessa, presso un agriturismo, la data è comunicata poco prima, gli ospiti sono convocati con indicazioni molto vaghe sulle tematiche dell’incontro e a nessuno è dato di conoscere la lista di chi interverrà. Non sono permesse registrazioni nè pubblicazioni.
Tanto meno sponsor.
Ma in tutta questa strana storia ci sono delle certezze: oltre agli interventi di ospiti, – selezionatissimi tra esperti, scrittori, giornalisti, avvocati, medici, scienziati, artisti e altri pensatori della scena “libera” del momento – ci sono pure musica, spettacoli, ottima cucina, momenti dei relax, l’opportunità di scambio diretto con i relatori… e sempre tanta, tantissima gente.
Ogni anno, si registra il tutto esaurito.

In questa edizione, tra gli interventi più significativi, c’è quello di una straordinaria Elisabetta Frezza, che parla dei giovani e di quella che proclamano essere l’Ultima Generazione.
Anche in questa occasione, non si risparmia nei suoi micidiali fendenti e nella sua capacità d’ampliare e arricchire il quadro della realtà nella quale siamo immersi. Imperdibile.

Qui di seguito, il testo della sua lettura fatto arrivare a Usque Tandem e, in calce, il link al pdf.
Buona lettura.



LA NUOVA CORTINA DI FERRO

Di Elisabetta Frezza

Si definiscono “Ultima Generazione”. Attribuiscono così alla propria azione e alla propria stessa esistenza un senso terminale. In uno slancio di inconsapevole realismo autodiagnostico, si dichiarano contro la vita, a partire dalla propria.
Chi sono? Sono i giovani attivisti teleguidati, finti ribelli di una società addomesticata in via mediatica, coltivati nei vivai scolastici a pensare e a dire quello che altri hanno deciso debbano pensare e dire (a scuola non vengono più forniti i fondamentali, le conoscenze durevoli e universali e, con esse, gli strumenti per imparare a ragionare in autonomia; ma viene servita la sbobba predigerita, da ingurgitare così com’è); istruiti a pascolare dentro il recinto segnato, e a rispettarne la ferrea segnaletica; interpreti a soggetto di una trasgressione di cartapesta, secondo il copione che viene loro messo in mano. In realtà, più che mai organici alle simmetrie del potere e funzionali al suo radicamento, costituiscono una componente essenziale della grande macchina macinatrice di menzogna, assemblata con cura maniacale da chi crede di avere in mano i destini di tutti e, giustamente, ha di mira anzitutto le nuove generazioni lasciate indifese dalle vecchie.

Ultima Generazione, tra l’altro, sono anche quei giovanotti cui è fatto credere di poter traslocare da un sesso all’altro e ritorno a seconda di come si svegliano la mattina, perché è stato inculcato loro che uno è – e ne ha il “diritto” – ciò che la fantasia del momento gli suggerisce di essere, con tanti saluti al principio di realtà; quelli che strillano per essere chiamati Lucia anche se hanno la barba, o Aldo anche se portano una quarta di reggiseno, in attesa di mutilarsi. E il dramma è che il mondo adulto ne asseconda le allucinazioni, perché già svuotato di ogni forza di pensiero e di ragione, e anche di ogni responsabilità. Il danno incommensurabile che discende da questa condiscendenza vigliacca e beota non preoccupa padri, madri, nonni, ormai assestati a loro volta in una condizione cronica di desabillé cognitivo perché a loro volta dipendenti dalla dose quotidiana di frottole spacciata dalla fauna televisiva, gracidante e venduta.

Riavvolgiamo un po’ il nastro al periodo pre-emergenziale e ricordiamo gli scioperi farlocchi dei Friday for Future, scioperi promossi dalle istituzioni – una trovata geniale nella sua patente idiozia. Lo sciopero, che incarna per antonomasia l’arma del soggetto debole contro il potere, nell’era del totalitarismo democratico è indetto e organizzato dallo stesso potere, cui ormai basta un grossolano gioco di prestigio per turlupinare sudditi lobotomizzati. Questi cosiddetti scioperi hanno funzionato da carta moschicida per torme di scolari rastrellati nelle scuole attraverso incentivi e intimidazioni: chi non aderiva era interrogato, ridicolizzato, additato al pubblico ludibrio; chi aderiva invece era premiato, oltre che giustificato d’ufficio con la formula creativa di “presente fuori aula” e insignito di un “attestato di partecipazione”. Un abbozzo di schedatura ante litteram: l’apartheid vera era in cantiere e sarebbe arrivata di lì a poco in groppa allo spauracchio sanitario.

Le scuole hanno rappresentato la rampa di lancio della propaganda climatica. È bastata una Pippi Calzelunghe triste e senza magia a chiamare l’adunata, una ragazzina eterodiretta pompata al punto da ottenere la ridicola candidatura al Nobel per la pace. Figlia d’arte creata in vitro, espressione del solito apparato plutocratico ecomondialista.

Questi giovani scagnozzi del sistema (i seguaci di Greta, così come le sardine) hanno fatto da buttadentro in quel luogo dove i giovani potevano provare simultaneamente sia l’ebbrezza della trasgressione, sia il comfort della approvazione sociale. La quadratura del cerchio: felici i figli di papà, felici i papà, felici i sedicenti “educatori” dei figli di papà, per aver centrato l’obiettivo di plasmare copie conformi di invertebrati obbedienti: zero divergenza, nella neolingua si chiama “inclusione”.

Tutto questo accadeva prima che quelle stesse frotte di soldatini si azzittissero sotto strati di mascherine tossiche e inquinanti, ligi fino all’ultimo esercizio ginnico fosse loro ordinato dagli onnipotenti guardiani della sicurezza. Se ne sono stati un paio d’anni a cuccia e imbavagliati, perché il padrone ordinava così, cavie scodinzolanti di un altro laboratorio. Finché a comando sono rispuntati fuori, come nulla fosse successo, pitturati di arcobaleno, salvatori del pianeta no-doccia ma sì-armi.

«Non vogliamo morire di clima!» è l’urlo messo in bocca ai giovani ecocrociati.
Come se il Clima (e la sua minaccia inesistente) non fosse invece che uno dei veleni per farli fuori.
Sappiamo bene che il fine dell’ecologismo, ingegnerizzato in tempi non sospetti da soggetti come Aurelio Peccei e da cricche come il Club di Roma, è uno soltanto: il decremento demografico, la riduzione della popolazione sul pianeta. Che vuol dire, mettere al mondo meno bambini e insieme promuovere la soppressione dei più fragili.
La guerra contro la riproduzione umana si chiama Sovrappopolazione, Sviluppo Sostenibile, Decrescita felice, Global Warming, Climate Change: è la nuova divinità dai molti nomi ma dall’unico volto.
Allo Sviluppo Sostenibile peraltro è intitolata l’Agenda 2030, il libro delle meraviglie per allocchi fatto di 17 comandamenti e diventato oggetto di catechesi scolastica dall’asilo alle università con l’avvento della supermateria che va sotto l’etichetta di “nuova educazione civica”. In quei dogmi è condensato un unico grumo ideologico colpevolizzante e mortifero.

Riavvolgiamo ancora il nastro, fino a risalire all’epoca della prima emergenza ecologica della storia italiana. Era il 1976 quando avvenne l’incidente alla fabbrica Icmesa di Seveso e si scatenò l’allarme per la nube tossica di diossina. Nessun morto, nessun ferito, ma grande preoccupazione per la salute della popolazione, in particolare delle donne incinte. Fu diffuso il terrore che i bimbi che portavano in grembo potessero essere danneggiati o nascere deformi. Si cominciò così a invocare il ricorso all’aborto, allora illegale in Italia; qualcuno preso dall’entusiasmo suggerì addirittura di renderlo obbligatorio, in modo da stroncare sul nascere qualsiasi remora morale.

Seveso rappresentò uno snodo fondamentale nella storia dell’ordinamento giuridico italiano. Non sul versante della disciplina sulla sicurezza degli impianti industriali, come qualcuno magari sarebbe portato a pensare, bensì per la svolta impressa al dibattito che già da qualche tempo scuoteva l’opinione pubblica sull’onda della sentenza Roe vs Wade della Corte Suprema americana che, nel 1973, legalizzò l’aborto negli USA.

Cavalcando il dubbio che l’esposizione alla diossina potesse avere effetti teratogeni sui feti, a chiedere al governo che le donne incinte fossero ammesse all’aborto si levarono in particolare le voci di due parlamentari: Emma Bonino e Susanna Agnelli. La prima, una con la fissa della sterilizzazione e dell’aborto (confondatrice a Milano nel 1973 del Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto), che praticava lei stessa clandestinamente con le pompe da bicicletta; la seconda, rampolla della famiglia oligarchica del club di Roma (Peccei, come Kissinger, era uomo degli Agnelli e dei Rockfeller, il giro è unico).

Un sodalizio, quello tra la manifestante radicale e la ereditiera miliardaria, saltate insieme sopra il medesimo carro, che dimostra una volta di più come non sempre i movimenti di piazza siano animati da forze spontanee.
Ebbene, qualche decina di donne in quel frangente in effetti abortì, tra le polemiche visto anche che i referti delle analisi autoptiche (fatte nell’Istituto di Patologia dell’Università di Lubecca) non rilevarono alcuna malformazione nei feti soppressi. E visto che dalle gravidanze portate a termine nacquero tutti bambini sani. Fatto sta che due anni dopo anche l’Italia, grazie all’impatto emotivo avuto dalla vicenda di Seveso e a dispetto dei fatti, si dotò di una legge sull’interruzione volontaria della gravidanza (legge194/1978).

Già allora, la paura – lo shock – consentì di intraprendere un passo, che era certamente scritto in agenda, ma che senza quel trampolino avrebbe subìto molte più resistenze di ordine morale, giuridico, religioso.
Già allora inoltre si captava, in controluce, il nesso tra discorso sull’ambiente e discorso sul controllo della vita. Erano gli anni in cui nei libri di scuola si cominciava a martellare il ritornello che sul pianeta eravamo troppi e che qualcosa bisognava pur fare. Da tempo il malthusianesimo, più o meno camuffato, fa da colonna sonora ai programmi delle scuole di ogni ordine e grado.

Oggi il martellamento è tale, e tale la pressione che genera nelle menti in via di formazione, da provocare la diffusione del fenomeno cosiddetto della ecoansia, una psicosi che scaturisce dagli accenti apocalittici con cui viene inculcato il credo ambientalista. L’ecoansia arriva al punto da alimentare sensi di colpa per il solo fatto di essere al mondo, e talvolta sfocia addirittura nella recondita intenzione di farsi da parte, per disturbare il meno possibile gli equilibri del pianeta. Un numero crescente di giovani cresciuti a pane e allarme climatico tende da un lato a rifiutare programmaticamente di procreare, avendo interiorizzato come un crimine il farsi generatori di vita, dall’altro a ridurre ogni interazione col mondo circostante. Praticamente, grazie all’agenda, stiamo coltivando eserciti di sociopatici depressi.

E attenzione, perché dietro l’angolo di queste manifestazioni di ecoansia alligna sinistra la promozione di un’altra fondamentale componente della macchina di cui sopra: l’eutanasia. Sulla quale, non per nulla, la regìa ha intrapreso e perseguito con tenacia un percorso di progressivo sdoganamento, preparando il terreno prima sul piano emotivo e morale, per colpire poi, a rana semi-bollita, sul piano giuridico, come Overton insegna.

Anche qui dunque l’humus è stato creato per tempo, secondo il paradigma inaugurato (sempre al di là dell’oceano) con Terri Schiavo, e approdato in Italia con Eluana Englaro. Il teatrino di morte allestito intorno a Eluana aveva il compito di aprire la voragine in cui trascinare tanti incapaci sull’esempio di altri civilissimi paesi in cui già venivano impunemente uccisi. Alla gente è bastato somministrare l’oppio della pietà fasulla e delle false buone intenzioni; l’oppio che, addormentando la coscienza, spegne anche la ragione, impedendole di distinguere un atto di misericordia da un delitto. Da portare a compimento nel nome del popolo italiano.

Eluana, non va dimenticato, era curata amorevolmente in un istituto di suore a Lecco, ed è stata fatta morire di fame e di sete nella orrenda solitudine della prigione di Udine in cui fu trasferita dai suoi carcerieri, senza nemmeno il conforto umano che si concede agli ultimi istanti di un condannato a morte. Tutti – soprattutto i cantori della buona morte – dovrebbero leggere e rileggere questo articolo di Lucia Bellaspiga, scritto a dieci anni dall’esecuzione dell’innocente.

Eluana è morta tra sofferenze atroci perché si è smesso di fornirle il nutrimento che non era in grado di procurarsi da sola: vittima, tecnicamente, di un reato commissivo mediante omissione, come quello compiuto dalla madre che volontariamente smette di allattare il proprio bambino provocandone la morte. E che sia stato autorizzato da un giudice non ne

muta la fisionomia di fatto delittuoso, ma semmai introduce un fattore di straordinario allarme sociale.
Si voleva che la morte di Eluana fosse sentita da tutti come auspicabile e che tutti riconoscessero la legittimità della sua soppressione, allo scopo di trasferirne arbitrariamente il fardello sulle spalle di una intera collettività. A sostegno del programma politico sono scesi in campo la magistratura e il capo dello stato, che di fatto decretò la condanna a morte della ragazza superando il tentativo estremo del Governo di salvarla («Eluana è una persona viva, le sue cellule cerebrali sono vive e potrebbe in ipotesi generare un figlio. È necessario ogni sforzo per non farla morire» disse Berlusconi in aula), e mettendo così la pietra tombale, letteralmente, sopra un drammatico conflitto istituzionale.

Da lì è cominciato lo slippery slope, il pendio scivoloso verso la normalizzazione della pratica occisiva. L’esito naturale dell’operazione – quello che il legislatore penale voleva scongiurato – è che non solo il volente ma anche il nolente verrà ammazzato se, per chi detiene il potere e lo esercita spregiudicatamente, la sua vita non supera un determinato standard di qualità (il cui metro di misura è nelle mani del potere medesimo).

Il Canada, paese all’avanguardia nelle politiche di morte e di controllo sociale, registra oggi un’impennata furibonda di casi di eutanasia, consegnandone alla cronaca di demenziali, come quello della veterana in carrozzina che chiedeva una rampa in casa per facilitare i movimenti e alla quale lo Stato ha risposto proponendole l’eutanasia. O quello dell’uomo affetto da ecoansia che ha domandata la morte per fuggire a una sofferenza divenuta insopportabile. O quelli, sempre più numerosi, di bambini e di poveri, sui quali è fatta gravare come una colpa la propria condizione di fragilità o di indigenza.

Si vede bene, allora, come l’eutanasia sia l’eufemismo destinato a nascondere l’omicidio legalizzato, a spese e col patrocinio dello stato, per eliminare gli individui inutili, o improduttivi, o comunque più costosi, e poi magari (per qualche motivo intuibile) anche quelli scomodi o pericolosi alla stabilità sociale. Dal punto di vista giuridico, tappa obbligata per raggiungere il risultato è quella di trasformare l’omicidio della persona consenziente – che è appunto un omicidio, anche se punito con pena attenuata – in un suicidio “assistito”. Perché, siccome a nessuno è vietato suicidarsi, non deve essere punito neppure chi fornisce i mezzi “umanitari” per la realizzazione di quel proposito.

La legge infatti non punisce chi ha tentato il suicidio senza riuscirvi perché si ferma davanti a un incommensurabile dramma personale, ma, rispettando la propria vocazione a custodire la convivenza comune in vista del bene comune, interviene quando vede allungarsi l’ombra sinistra di un terzo estraneo, che abbia istigato o aiutato il suicidio, oppure che abbia ucciso chi si mostrava consenziente.

Quelle norme cautelari hanno da sempre ostacolato la legalizzazione dell’eutanasia, e perciò proprio contro di esse è stato mosso un attacco concentrico da parte della politica senza rilevanti distinzioni di bandiera, dalla magistratura, delle c.d. “alte cariche dello Stato” e da una propaganda indefessa che ha lavorato a dovere l’opinione pubblica. Mentre della Chiesa è bello tacere.

Per far questo, si è agito preliminarmente sul piano della suggestione mediatica e della partecipazione emotiva.
Si è detto che di fronte alla sofferenza si può invocare a buon diritto la morte poiché offenderebbe la dignità della persona. Quella sofferenza che sempre è stata affidata alla saggezza e alla pietà famigliare, allo spazio in cui l’imponderabile viene affrontato con la forza e la sapienza degli affetti. Mentre il nuovo concetto da assimilare è che la dignità dell’uomo si identifica con il suo benessere, inteso come autonomia psicofisica ed economica.

Ma, se la dignità della persona è offesa dalla sofferenza e per essa è lecito pretendere una morte liberatoria, qualsiasi deficit psichico e fisico anche transitorio può diventarne il presupposto.
Non si capisce, o non si vuol capire, che la abolizione di una norma di garanzia come quella che punisce l’aiuto al suicidio avrà come esito fatale proprio la sottomissione della vita all’arbitrio del potere, che tra l’altro, nel dissolvimento degli Stati nazionali, non appartiene più neppure allo Stato, ma ad inafferrabili e smisurati “poteri” non statali.

La chiave di volta dell’oltraggio alla vita è sempre quella: il motivo umanitario, il presunto bene della vittima. L’enfasi sul miglior interesse della persona.
E sblocchiamo un altro ricordo: nella primavera del 2018, per il suo best interest, è stato giustiziato a sangue freddo a Liverpool, dalle istituzioni laiche e religiose insieme in una surreale corrispondenza di amorosi sensi, il piccolo Alfie Evans (poco meno di due anni), letteralmente strappato alle braccia dei suoi genitori che fino all’ultimo hanno tentato di sottrarlo ai carnefici e salvargli la vita: un bambino vitale e reattivo, che interagiva e sorrideva alla sua mamma. Ricordiamo anche di come per Alfie fu chiesta e ottenuta la cittadinanza italiana in un tentativo estremo di sottrarlo ai suoi aguzzini e di come fosse pronto al decollo un aereo attrezzato del Gaslini di Genova per trasportarlo in Italia e curarlo come si cura un bambino malato. L’Italia reagì col cuore di fronte a quello scempio. Ma i servitori di Sua Maestà in parrucca, in camice e in paramenti, e Sua Maestà medesima, hanno rimosso anche la loro famosa Magna Charta Libertatum (1215), e si sono rifiutati di liberare Alfie. Non diversamente da quanto stanno facendo con Julian Assange. Cose che accadono nel regno di Albione, nemico eterno della Russia (come ha detto di recente Medvedev).

Ma perché uccidere un bimbo aggrappato ai suoi genitori e alla vita? Evidentemente quello di Alfie era un sacrificio umano programmato, che fu trasmesso in mondovisione a scopo rieducativo. Per lanciare un avvertimento: non decidi tu, caro genitore, del bene e della sorte di tuo figlio; se il potere stabilisce che è fragile, imperfetto e, in previsione futura, la sua vita non raggiungerà uno standard di qualità soddisfacente (il metro di misura di quella qualità è sempre nelle solite mani, e anche la sfera di cristallo per prevedere il futuro), nella società del progresso può prendertelo e sopprimerlo.

Così la prossima volta, magari, impari a pensarci prima e a programmarlo senza vizi di fabbricazione, come oggi la biotecnologia di Big Pharma consente. In fondo, generare esseri umani alla vecchia maniera, affidandosi alla roulette russa della natura, è da egoisti perché vuol dire rischiare di mettere al mondo un figlio imperfetto, il che va contro il suo best interest: nella società evoluta, con la FIVET (fecondazione in vitro) e la relativa diagnosi preimpianto dell’embrione, si può eugeneticamente neutralizzare l’alea della natura, e procurarsi designer babies, con gli optional scelti da catalogo, chiavi in mano e in garanzia. L’agenda, tra le altre belle cose, stabilisce anche questo: di far slittare la procreazione da fatto naturale a fatto sintetico. In altre parole, la procreazione deve de-sessualizzarsi – il sesso viene relegato a funzione meramente ricreativa, ma sterile – e spostarsi verso il paradigma della “fertilizzazione”, su modello zootecnico. Con relative selezioni e manipolazioni pre e post impianto. È il grande affare della provetta. Edwards – che fu il pioniere della fecondazione artificiale, vincitore del Nobel per la medicina nel 2010 in qualità di “padre” di Louise Brown la prima figlia della provetta, nata nel 1978 – lo diceva compiaciuto, che «presto sarà colpa dei genitori avere un bambino portatore di disordini genetici». Vale a dire che, nella sua testa, la normalizzazione della provetta doveva portare verso la demonizzazione della generazione naturale.

Ma cosa significa, di fatto, questo cambio di paradigma? Significa una cosa enorme: significa che la fabbrica della vita passa nelle mani del potere farmaceutico: cioè sia il rubinetto della vita, sia anche la cassetta degli attrezzi per aggiustarla.
Big Pharma, in altri termini, intraprende la scalata per acquisire il controllo del nostro corpo, inteso come ultima interfaccia computazionale, col risultato che questo corpo perde la capacità di autogestire le proprie funzioni, e di autoripararsi, per dipendere da un azionista alieno. D’altra parte, già nel 1996 Bill Gates (uno dei principali finanziatori del CRISPR, oltre che dell’OMS e di tutte le Big Pharma) diceva che «il gene è il software più sofisticato che ci sia», dimostrando di avere ben presente la meta: un “modesto” programma di controllo del mondo attraverso l’informatica della vita. Ora costui si sta concentrando nel settore alimentare, sempre utilizzando la genetica.

A questo proposito, vorrei ricordare un episodio salito agli onori delle cronache americane (nelle colonne del NYT) nel 2016, perché aiuta a chiarire su quale terreno si muovono le pratiche di riproduzione artificiale. Si parlava dei cosiddetti “embrioni mosaico”. Sono chiamati così quegli embrioni – stimati in circa il 20 per cento della totalità di quelli prodotti in laboratorio – formati da un misto di cellule (in apparenza) anormali insieme ad altre (in apparenza) normali in base agli esiti dello screening genetico preimpianto (PGS), che determina la scelta di chi passa o non passa le eliminatorie: di chi, cioè, ha possibilità di essere impiantato in utero oppure no.

Si è scoperto che questi embrioni imperfetti, normalmente scartati, sono in grado, se impiantati in utero, di riparare da se medesimi le proprie anomalie iniziali, ed essere bimbi sani alla nascita: una evidenza che, alla fine, fa crollare i presupposti su cui si fonda la PMA stessa. Gli scienziati sono rimasti tutti stupiti, perché non avevano mai provato a dar seguito a una gravidanza con un embrione mosaico. In quel caso, la richiedente era ormai attempata al punto da non poter affrontare un ulteriore ciclo di stimolazione ovarica e aveva scelto di rischiare l’impianto di un embrione imperfetto, sapendo di potersi giocare, semmai, la carta dell’aborto. Il bimbo è nato sano (come i bimbi di Seveso). Calimero insomma cresce bene. Ciò dimostra la demenza totale della c.d. comunità scientifica, che non ha capito nulla della vita e dunque non ha nessuna fiducia nella vita e si butta, bendata, nelle sperimentazioni di massa (di cui sappiamo qualcosa).

La visione meccanicistica della scienza medica pensa all’uomo come a una macchina. E le macchine rotte sono complicate da aggiustare, meglio buttare via un prodotto difettato. Invece la vita si aggiusta da sé. La vita è in grado di ripararsi in modi sorprendenti, fa cose che gli scienziati non sono nemmeno lontanamente in grado di fare e di spiegare. La c.d. scienza non ha capito la forza che ha la vita, soprattutto nei primi momenti della sua formazione (le staminali embrionali sono cellule che sanno fare tutto). Lo scienziato che scarta un embrione mosaico non sa cosa potrebbe saltare fuori. In realtà nessuno di noi sa se era un embrione mosaico, oppure no.

Nello stesso articolo del NYT si riferiva anche come il dottor Norbert Gleicher, direttore del centro per la riproduzione umana di New York, si chiedesse se, a quel punto, non fosse opportuno riflettere sugli screening preimpianto: se cioè un campione casuale formato da una decina di cellule prelevate precocemente possa essere rappresentativo dell’intero embrione e parametro unico in base al quale decidere le sue sorti. Ciò che colpisce è lo stupore diffuso di tutti questi signori, molto esperti, che in realtà vanno avanti bendati senza nulla sapere di ciò che stanno facendo, e ce lo dimostrano in continuazione.

L’aggressione alla vita, fino alla manomissione del suo codice fondamentale – ossia della sua struttura più profonda, il genoma – oggi viene praticata in modo massivo e seriale sia con l’eugenetica prenatale (produzione in laboratorio di esseri umani bioingegnerizzati attraverso la tecnologia CRISPR: editing genetico, taglia e cuci del DNA promosso da Bill Gates con finanziamenti stellari), sia con la somministrazione di farmaci a mRNA che, alla fine, si basano su una formula bioinformatica suscettibile di interferire col materiale genetico della cellula umana. Sbaglieremmo a non cogliere il nesso tra queste due operazioni biotecnologiche: la diffusione del CRISPR, e quella dei farmaci di ultima generazione. Sono le due direttrici attraverso le quali si realizza la transizione verso una nuova concezione della medicina, da chimica a genica. Da medica a informatica (ecco perché Gates è così onnipresente). Il Covid ha fatto da acceleratore in questa transizione, rendendo eugenismo e transumanesimo fenomeni di massa. Il che implica lo sconvolgimento indotto dell’assetto biologico che la natura consegna a ciascun individuo e che è dotato di un equilibrio insondabile ed esclusivo.

Alla fine, insomma, dietro tutta la paccottiglia contenuta nelle agende con cui risciacquano giorno e notte il cervello dei nostri figli (ma in qualche modo hanno già lavato anche il nostro), c’è un denominatore comune, per chi lo voglia vedere.
Se ci prendiamo la briga di grattare appena appena ogni singolo slogan di questa farsa, affiora in superficie una struttura di artificio, di morte, di programmatica sterilità; trapela un odio strisciante, profondo, per la vita e per l’essere umano. Per la meraviglia e il mistero che nessuna scienza riuscirà mai a penetrare e riprodurre, per quanto cerchi di carpirne i segreti e scimmiottarne il funzionamento. Un odio per la vita che da decenni è instillato in modo pervasivo nelle menti e nei cuori e ora, dopo aver seminato e coltivato a lungo il terreno, sta dando i suoi frutti avvelenati, perché i tempi sono maturi.

Tutto, oggi, pare progettato per offenderci e per cancellarci. 
 


Per questo la società è già stata segmentata ed è già stato individuato il suo segmento sacrificabile. Il green pass altro non era che una prova generale di una mutazione strutturale dello Stato e dell’umanità – una prova tecnica per la sottomissione dell’uomo a una piattaforma informatica con premialità e interdizioni. Quella per la quale Colao, in pandemia, ha lavorava a testa bassa, nel buio e nel silenzio.

Il cittadino diviene “utente”, lo Stato diviene “piattaforma”, i diritti evaporano e divengono “accessi” assegnati e tolti dall’alto per disposizione elettronica, oggi ancora guidata da esseri umani, domani prevedibilmente da intelligenza non umana perché la macchina è imparziale (ecco come mai le macchine stanno diventando oracoli e le decisioni della macchina saranno inappellabili). ChatGPT non solo si mangerà la realtà, in quanto ne diverrà unica fonte, ma deciderà della sorte delle persone. Non per nulla da tempo lo sforzo è proprio quello di screditare la realtà, di destituirla di ogni fondamento e di renderla indifferenziata dal moto di fantasia. La realtà va messa al bando: il gender è proprio questo. Così si è preparato il terreno alla invasione del virtuale, alla grande sostituzione, al metaverso, alla fiction che soppianta la realtà.

Alla base della certificazione verde sta proprio la divisione della popolazione tra chi si assoggetta al nuovo apparato biometrico e biosecuritario, cedendo al senso di colpa indotto, alla pressione dei pari, alla suggestione di profezie apocalittiche; e chi no. Ricordiamoci che solo quanti avevano accettato un trattamento a base genica potevano entrare al bar, potevano salire in un mezzo pubblico, potevano andare a teatro; che senza quel marchio non lavoravi, e quindi facevi la fame, eri indegno di appartenere al consesso sociale in quanto disobbediente, sovversivo, civicamente ineducato, organoletticamente repellente. 


La società ha tragicamente dimostrato di essere pronta a creare due classi e a far prevalere quella che accetterà il controllo genetico come suo principio ordinatore. La piattaformazione della vita dell’individuo farà sì che sarà lo Stato, tramite una struttura centralizzata, a dirti cosa potrai o non potrai fare, se potrai vivere o se dovrai morire.

In fondo, è questa qui la radice della guerra in corso: l’interfaccia digitale.
L’Ucraina è l’officina di questo progresso antiumano fuori controllo. È un coacervo di svastiche, piattaforme di controllo sociale e biotecnologia impazzita che riassume perfettamente in un luogo geografico il mondo del XXI secolo in cui l’eugenetica informatica ha preso il sopravvento.
Basti dire che Kiev è la capitale mondiale dell’utero in affitto. Bambini ordinati da catalogo vengono spostati nei bunker – come dire all’acquirente: tranquillo, la tua merce è al sicuro: l’umiliazione della vita umana, l’apoteosi della sua reificazione e mercificazione, nel mondo alla rovescia viene difesa con i kalashnikov. E si punta dritti verso l’ectogenesi, secondo il principale oligarca affitta-uteri di Kiev (Tocchilovsky patron della BioTexCom).
E basti dire che a Kiev, poco prima della operazione militare speciale della Russia, veniva presentata in pompa magna DIIA, la piattaforma digitale di Stato per controllare ogni attività del cittadino e fungere da wallet della moneta digitale: a vaccinazione avvenuta, lo Stato caricava nel profilo dell’utente 40 dollari.

Hanno ragione questi ragazzi zombificati: dal loro punto di vista sono proprio l’Ultima Generazione, una generazione sterilizzata dentro. Li hanno talmente spossessati di se stessi e del proprio essere, da indurli a non rispettare più nemmeno la loro natura etimologica; si dice generazione perché, generata, è chiamata a sua volta a generare la vita. Deriva da genos (stirpe), che poi ha la stessa radice di gyné (donna).

Sono l’ultima generazione, priva di qualsiasi appiglio sulla realtà delle cose, a partire dal dato biologico, e perciò risucchiata senza alcuno sforzo dentro il buco nero della pornografia alfanumerica, nel dominio di algoritmi spettrali. Perché in un mondo diventato onirico, si diventa incapaci persino di pensare la realtà e la verità.
La dissociazione dalla realtà è speculare al distacco dalla memoria, fenomeno che domina ogni aspetto e ogni ambito della contemporaneità. Gli individui senza memoria del passato non possono avere né visione né speranza del futuro; non temono la distruzione del tempo, non avvertono lo sgomento del nulla.
Ma non mancheranno i tedofori delle cose umane capaci di capire l’inganno e di resistervi. Se il traguardo dei nemici dell’uomo è la definitiva perdita di sovranità sui corpi e sulle anime, il tesoro che siamo chiamati a difendere è proprio la natura di quell’uomo, nella sua creaturalità e nella sua sacralità, nella sua verità e nella sua memoria.

Qui, il pdf dell’intervento.

Qui, il link al suo sito ufficiale https://elisabettafrezza.it/

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