Party tu, che io re(si)sto qui

Di Paolo Ceccato

Immagine dal web.

Rave party, o free party o come si chiamano quegli eventi. Immagini, riprese, parole. Ragazzi come tutti gli altri ragazzi, che ascoltano la stessa musica, indossano gli stessi vestiti, in testa i medesimi stereotipi. Nessuna rottura, nessuna creatività; al contrario, nella forma e nella sostanza (al singolare), tanto consumo e un conformismo esasperato, fedele riproduzione di quello che passa oggi il Convento, a loro così come a tutti gli altri. E dunque, stanti così le cose, che diamine, cosa possono fare questi giovini con la i per distinguersi, sentirsi ribelli, rivoluzionari, anti-Convento, cioè anti-Sistema, cioè per sentirsi “a me non mi freghi mica”? Per sentirsi diversi possono solo prendersela con qualcosa che non è loro, fare più rumore, “sballarsi” più dei loro coetanei, sgrammaticare come se non ci fosse un domani, lordare muri e pavimenti e così via.
Il guaio è che, sempre nella sostanza (e sempre al singolare), la loro azione è nulla, nulla come esattamente vuole il Convento, quello stesso che passa loro accessori, complementi, set preconfezionati d’immaginario ribelle, musica, giubbotti di plastica ecologica, sistemi di amplificazione e corrente elettrica. 

E il risultato, dal punto di vista del Convento, è perfetto: non c’è nulla, niente, zero zerissimo, in quei ragazzi, che possa scalfire il sistema o anche solo sbiadire quel che passa il proverbisale Convento. C’è solo baccano, pasticche e congiuntivi che saltano. E tanto, tantissimo tempo perso che non sarà più recuperato. Ipoteche, dal rating tripla A, di un futuro che sarà esattamente quel che è ed è stato, mentre in altre parti del mondo (o forse anche tra loro, chissà) altri ragazzi studiano, imparano, si laureano e verranno assunti dal Convento, per garantirsi decenni di proprietà intellettuale e prosperità, grazie ai loro cervelli. 

A noi invece i rave o free party o come si chiamano, cioè benessere che fugge dalla realtà e sputa sul piatto in cui mangia. Sempre meglio di provare a cambiare le cose: troppo, troppissimo faticoso.
“Un tempo essi firmavano le loro lettere, come Kant e Hume, ‘servo umilissimo’, e intanto minavano le basi del trono e dell’altare. Oggi danno del tu ai capi di governo e sono sottomessi, in tutti i loro impulsi artistici, al giudizio dei loro principali illetterati”. Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, 1944.

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