Al mercato del petrolio

paoloceccato_

Immagine da iBroker.

Questa mattina, chi scrive è andato al mercato.
Un piccolo mercato, di quelli paesani, all’aperto, in piazza.
Ci è andato, come sempre, per il gusto di osservare, girovagando tra le bancarelle, qua e là, curiosare e, ogni tanto, leggere le etichette interne dei capi di abbigliamento, che a volte si trovano nella parte
posteriore del collo, a volte all’interno, nelle cuciture laterali.
In questo secondo caso, si apre o si rovescia con gentilezza il capo di abbigliamento, ricevendo talvolta, ma non spesso, qualche sguardo perplesso.

Etichette, dunque, ovvero petrolio. Perché, sì, in tutto questo crescendo di green, in realtà, probabilmente, non siamo mai stati tanto immersi nel petrolio: dalle sempre più infinite tratte commerciali dai luoghi di produzione a noi, fino a vestirci di petrolio, nelle varie declinazione di fibre sintetiche “poliammidiche, acriliche, polipropileniche, elastometriche, poliestere” e cose così e così via.

Vestiti di petrolio, dunque (accento a piacere). E, in effetti, va scritto, le fibre petrolchimiche sono resistenti, con ottime performance e costano poco (con margini di guadagno molto alto, se di marca), ottime per la moda, veloce e stagionale, di vuole “essere sempre alla moda”, cambiando spesso capi, senza spendere “un capitale”. Tutto benissimo. Però, quei capi di abbigliamento sono e rimangono petrolio e, oramai, un negozio di abbigliamento ha idrocarburi di un distributore di carburanti.

Con la complicazione che le fibre sintetiche non si riciclano, perché non è (per ora?) possibile, leggo, separare la lana o il cotone o altro dalle fibre petrolchimiche. In più, le microfibre petrolchimiche costituiscono, leggo, uno dei più gravi inquinamenti delle acque.
Al punto che le si trovano, le microfibre petrolchimiche, pure nelle sorgenti di montagna, il che vuol dire che entrano nel ciclo dell’acqua, trasportate in quota con l’evaporazione, per cadere di nuovo con la pioggia, nelle fonti d’altura.

Ma i vantaggi, a quanto pare, superano ogni qualsivoglia svantaggio.
I capi, appunto, costano poco e se ne può dunque comprare di più e cambiarli spesso. E questo, si sa, oggi è il nostro antidepressivo preferito: un qualcosa di nuovo risolleva l’umore e la vita.
Inutile negarlo, funziona.

Prova ne sia chi scrive, un depresso cronico che indossa abiti e maglioni con 30 e più anni di vita, quelli tipo “pura lana vergine” con il leggendario marchio disegnato da Franco Grignani nel 1964, recuperati nei vecchi armadi, lavati a mano. Ciononostante egli, cioè chi scrive, ricorda quando in montagna si saliva con i maglioni di lana, pesanti, e i pantaloni di velluto, tutta roba che dopo la pioggia non si asciugavano più.

Lui che si ricorda di una fattoria in Irlanda e il giovane proprietario, allevatore di pecore: “l’unica fonte di reddito sono oramai gli agnelli pasquali, la lana non la vuole più nessuno”.
Forse perché i colori, compreso il green, si fissano meglio sulle fibre
petrolchimiche. Così dicono. E poi viaggiano, i capi, da un capo all’altro del mondo: partono nuovi dalle fabbriche in Oriente, per essere venduti nei negozi dell’Europa, per poi tornare riciclati, dai cassoni della raccolta, ai Paesi del Terzo e Quarto Mondo, per essere rivenduti. E funziona benissimo.

Ecco, tutto questo in una mattina al mercato del petrolio.
Mancavano solo le sette sorelle.

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