Perdenti.

Confessione: amiamo i participi presenti. Perché sono, appunto, presenti, e di questi tempi non è poco, e perché, appunto, partecipano, nel senso che prendono le parti per qualcuno o per qualcosa. E anche questo, di questi tempi, non è poco.
Perdenti, dunque. Participio presente di perdere, aggettivo e sostantivo (maschile e femminile, parità di genere), indica una condizione sociale oggi unanimemente aborrita. Il perdente non piace, si sa; figura negletta e ripudiata, al punto da costringerci a inventare successi per sfuggire alla condanna perpetua di quel marchio così adesivo, perdente, che, participio presente, non ti lascia più.
Nessuno ama i perdenti. Beh, quasi nessuno. La letteratura ama i perdenti. Fin dagli inizi. Già nei poemi epici, i perdenti posseggono un’anima. Ettore, ad esempio, sconfitto da Achille; Odisseo, che torna sì a casa, ma perde tutto: anni, nave, compagni, onori. Nell’Eneide c’è Turno, a cui l’ultimo arrivato, Enea, porta via fidanzata, regno e vita. Non va meglio con le donne, anzi: Emma Bovary e Anna Karenina, i due personaggi capolavoro dell’Ottocento, cadono entrambe rovinosamente, mogli fedifraghe, amanti illuse. Nel Novecento, uno per tutti, Leopold Bloom, cioè Odisseo reinterpretato dal genio di James Joyce, nell’Ulysses. Inarrivabile.
Eppure, niente da fare. Il perdente, quando esce dai romanzi, non va, è disprezzato e disprezzabile. Nessuno assumerebbe un perdente, ovvio, e nessuna scuola insegnerebbe a perdere. Va bene. Ma perché? Perché il perdente non piace? In fondo, siamo tutti, a volte, perdenti e contenti: ad esempio, perdiamo peso e gioiamo; perdiamo tempo e, ammettiamolo, a volte è fantastico. Da innamorati, perdiamo la testa e ci va benissimo. Per i figli, non parliamone. Che si tratti solo di estendere casi, cose e situazioni in cui va bene perdere? Chi lo sa.
Anche perché, oggi, c’è più da perdere che da accumulare, no? Siamo nell’età del troppo, lo si ripete spesso, e in quel troppo c’è tanto da buttar via, non solo cose, ma anche stati d’animo, desideri, convenzioni sociali, aspirazioni, l’ultimo smartfon appena uscito, et cetera.
Da perdenti, potrebbero aprirsi alternative inedite, preferibili a quelle attuali, tutte vincenti, certo, ma i cui risultati non sono proprio incoraggianti. Piccole rinunce, vera rivoluzione, chissà, cambiamento non facile, d’accordo; perché, nella nostra società, l’indispensabile è probabilmente assicurato dall’eccedenza, non certo dalla morigeratezza.
Tuttavia, il perdente potrebbe rinascere sotto mentite spoglie. Iniziando col riabilitare quel participio presente, perdente, quale modo lecito di vivere, sentire, progettare, senza “sovrastrutture esistenziali”. Perfino il buon Friedrich Nietzsche, quello del super uomo, indicò la via del perdente, in Umano troppo Umano, là dove scrive che per andare oltre è necessario innanzitutto perdere la competizione, liberarsi dell’alfa dominante, perché sono “gli individui più liberi, molto più insicuri e moralmente più deboli, quelli dai quali dipende il progredire intellettuale” (cit, chiedo scusa per la paroccia). Metti mai che funzioni.
Per come siamo messi, tentar non nuocerebbe.

I vincitori non sanno quello che perdono, Gesualdo Bufalino (1920-1996).

Postilla.
La storia della “maglia nera”, titolo assegnato nel ciclismo all’ultimo classificato del Giro d’Italia, dal 1946 al 1951, poi abolito, evidenzia una caratteristica del perdente di oggi: non può salire su alcun podio. Il perdente, per essere sé stesso, non può essere riconosciuto ufficialmente come tale, ma rimanere “sotto traccia”, perché nella società dello spettacolo in cui viviamo, la sua immagine non ha posto né ruolo. Deve perdere e basta. O meglio: vincere di nascosto.

Immagine dal web: Leopold Bloom, disegnato da James Joyce.

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