Che spettacolo!

Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini*.
Chi qui scrive ritiene questa citazione una delle proposizioni più intuitive, istruttive e perfor(m)anti sulla nostra società.
A formularla fu un francese, Guy Debord (1931-1994), nel suo La società dello spettacolo, 1967. Oltrepassiamo il personaggio, controverso, ma l’eleganza della frase sta comunque nel cogliere, in poche parole, un aspetto, come dire, recondito della spettacolarità, ovvero la sua capacità di insinuarsi tra e influire sulle nostre relazioni sociali. In altri termini, seguendo Debord, chi controlla lo spettacolo (media, informazione, comunicazione etc) controlla le nostre relazioni sociali e può quindi manipolarci a piacimento. Il che non solo non suona molto bene, ma è un significato di “spettacolo” che è più trattenimento (in custodia) che intrattenimento (l’importanza dei prefissi è pari a quella degli avverbi, riflessione di chi qui scrive). Di certo, la frase dà senso compiuto al titolo del saggio di Debord: società dello spettacolo, ovvero una moltitudine di individui che la potenza uniformante delle immagini-spettacolo, scrivesi iconodulia, trasforma in una massa, influenzabile, attraverso l’immaginazione, da coloro che regolano la regia dello spettacolo stesso, un “quinto potere”. Consapevolmente o incidentalmente (la differenza non è da poco, ma qui non interessa).
L’immaginazione, appunto. Ovvero ciò che più caratterizza l’essere umano, così sostengono antropologi ed evoluzionisti, in quanto facoltà capace di atti simbolici, cioè di immaginare da qualcosa che c’è un qualcos’altro che non c’è. L’immaginazione ha trasformato il mondo in cui viviamo, non c’è discussione su questo, perché è una facoltà potente che, tuttavia, se non protetta, in mani altrui può trasformarsi nella chiave d’accesso per ridurci in schiavitù. Assoggettarci.
Soggetto è un sostantivo, ma anche aggettivo.
I dominanti hanno sempre approfittato dell’immaginazione dei dominati. È facile, perché solo la facoltà di creazione immaginaria, tipica della specie umana, permette la fuga gratificante da un’oggettività dolorosa. […]. è facile creare un movimento collettivo passionale d’opinione per qualcosa che non esiste al di fuori del prodotto variabile dell’immaginazione di ogni individuo.
La distanza sempre crescente che separa così la realtà oggettiva dalla creazione immaginaria permette di manipolare la prima, sfruttando la seconda a beneficio dei più forti
“. Henri Laborit, Elogio della fuga.
Vero. Ma premesso tutto ciò, cosa facciamo per tutelare questa facoltà, l’immaginazione, dal sopruso di altri? Poco o niente. Anzi, spesso e volentieri, favoriamo noi stessi l’assoggettamento, vinti dalla pigrizia o cullati dal trastullo, lasciando incustodite le porte della nostra immaginazione e permettendo così che essa venga sfruttata a piacimento, in balìa di logiche di mercato e potere.
Distorsioni della contemporaneità? Beh, no: i megaschermi che pulsano luci e colori nelle odierne piazze altro non sono che una riedizione dei grandi portoni delle Cattedrali medioevali, scolpiti con scene bibliche, per persuadere i fedeli, per lo più analfabeti, con immagini e rappresentazioni grandiose. Niente di nuovo. Se non fosse che lo strumento di difesa per eccellenza, la scuola, ha abdicato alla sua funzione di rinforzare il nostro sistema critico immunitario, optando per la prestazione, invece della formazione. E così la suddetta mediazione diviene via via sempre più profonda e la nostra immaginazione viene formattata da pacchetti preconfezionati, all-inclusive, da “scaricare e aggiornare”; un vero e proprio “primo servizio al cliente”, che la cosiddetta “industria culturale” ci fornisce e a cui noi aderiamo, ben felici di delegare ad altri la nostra scomoda libertà, in cambio di una più confortevole schiavitù.
Il che suona, a sua volta, un po’ iconoclasta, ma è comunque un grande spettacolo.
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*Le spectacle n’est pas un ensemble d’images, mais un rapport social entre des personnes, médiatisé par des images.

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